Papa Leone XIV è un poliglotta. Oltre all’inglese americano, sua lingua madre, parla correntemente lo spagnolo, che nell’America Latina preferiscono chiamare castigliano, l’italiano, il francese e il portoghese; sa leggere il tedesco e, naturalmente, ha dimestichezza con il latino.
Questo hanno riportato i media di tutto il mondo dopo l’elezione, ma, a leggere attentamente le biografie di Robert Francis Prevost, si scopre che parla anche il Quechua, la lingua dei nativi sudamericani, già ufficiale nell’impero Inca, parlata da quasi 8 milioni di persone nell’area occidentale del Sud America, incluso tutto il Perù. E il nuovo pontefice, appartenente all’ordine degli agostiniani, ha lavorato come missionario a Chulucanas e Trujillo a partire dagli anni ’80, immergendosi nelle culture locali e utilizzando pure da vescovo per predicazioni, amministrazione di sacramenti e dialogo con le comunità anche la lingua dei nativi delle sue diocesi di Chiclayo e Callao.
Questo particolare dell’uso della lingua dei nativi rende ancora maggiore la simpatia e la sintonia con il nuovo papa degli sloveni di Benecia, Resia e Valcanale come di tutte le comunità etnico-linguistiche con una storia passata e presente di vessazioni, discriminazioni e politiche di assimilazione.
Consola e dà grandi speranze constatare che, con Leone XIV, alla guida della Chiesa universale c’è ancora un pastore che si è lasciato plasmare dalla gente. Non dal potere, né dalla burocrazia ecclesiastica, ma dal contatto diretto con le comunità di confine, quelle dove la fede non è scontata, dove la Chiesa è sempre corpo a corpo con la povertà, la disperazione e la speranza.
Il pensiero ecclesiale del santo padre si è formato in Perù, dove ha vissuto per oltre vent’anni e anche acquisito la cittadinanza.
In Perù il nuovo pontefice si è arricchito nel dialogo con le culture locali, nell’ascolto delle ferite della società e nell’esperienza concreta di una Chiesa che non ha paura di rimboccarsi le maniche. Così i più attenti osservatori fanno notare che il nuovo Papa non è un teorico della sinodalità, è piuttosto uno che l’ha vissuta prima ancora che se ne parlasse nei documenti.
Il suo modo di concepire la Chiesa, in definitiva, è per molti versi affine a quello di papa Francesco, che voleva una Chiesa «in uscita », che non giudica ma accoglie, che non impone ma accompagna. E in chi gli è succeduto c’è anche la sobrietà derivante dal pensiero e dall’insegnamento di Sant’Agostino che crede nella forza della comunità, ma anche nella centralità della coscienza e nel valore del discernimento personale.
Robert Francis Prevost è stato eletto papa in un mondo lacerato da guerre e conflitti di ogni sorta, segnato da un individualismo sfrenato che calpesta la dignità dell’uomo, nel quale, come da lui stesso sottolineato nella prima messa con i cardinali elettori, la fede cristiana «è considerata una cosa assurda» perché «si preferiscono tecnologia, denaro, successo, potere, piacere» e in alcuni contesti Gesù «è ridotto solamente a leader carismatico o un superuomo», e ciò anche «tra molti battezzati che finiscono così col vivere un ateismo di fatto».
Che fare, allora? Leone XIV lo ha detto subito dopo l’elezione parlando dalla loggia della basilica di San Pietro: «Il mondo ha bisogno della luce di Cristo, l’umanità necessita di Lui come ponte per essere raggiunta da Dio e dal suo amore. Aiutiamoci anche noi, gli uni gli altri, a costruire ponti, con il dialogo, con l’incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo, sempre in pace». Solo così, come ha detto Francesco il giorno di Pasqua, «il male non prevarrà».
In definitiva, il pontificato di Robert Francis Prevost segna una continuità – e non poteva essere diversamente dopo i 12 anni di Jorge Mario Bergoglio – nella preoccupazione per il bene comune, per un Vangelo al centro della società e per una Chiesa che si mette in ascolto dei più poveri e dei più piccoli. Comprese le minoranze etnico- linguistiche.
Ezio Gosgnach
dal Dom